Marina Cvetaeva, Taccuini 1919 – 1921, Roma, Voland, 2014, Traduzione e cura di Pina Napolitano, pagg 428, € 20,00 

È strano, ma naturale, come la voce del poeta possa raggiungere luoghi lontani, sperduti e silenziosi. Magari affettuosamente malinconici, come nel caso di quel piccolo cimitero di montagna, appartato e intimo, dove una lapide porta incisi i versi di Marina I. Cvetaeva:
“Con l’orizzonte ti abbraccio dei monti, / con la corona di granito delle rocce, / (Ti intrattengo in conversazione / perché tu respiri più leggero, dorma più tranquillo )“.

Chissà attraverso quali avventurose peripezie Marina I. Cvetaeva può ancor oggi intrattenere in conversazione coloro che dovessero visitare quel piccolo cimitero.
Un luogo, allora, dove ci si può idealmente incontrare con colei che – suicidatasi il 31 agosto del 1941, a 49 anni – è stata sepolta a Elabuga, in una fossa comune, addirittura di incerta collocazione. Curioso, in questo caso, il destino del poeta: non è possibile portare fiori e pensieri sulla sua tomba ma è consentito ascoltarne la voce tra i pini di un luogo appartato distante migliaia e migliaia di chilometri.

I Taccuini 1919 – 1921 (si tratta dei taccuini n. 7 e 8) dipingono gli stati d’animo di Marina I. Cvetaeva che possono essere colti a partire da uno stato d’animo equivalente: occorre che il lettore si disponga ad attivare una sorta di sintonia affettiva con l’Autrice, dove una delle parole-chiave è amore infelice.

Nella Prefazione, Pina Napolitano – curatrice e traduttrice acuta, sensibile e rispettosa — sottolinea come sia importante l’ immaginare. Lo ripete più volte: “Immaginate – ma c’è un particolare: tutto quello che state immaginando è la realtà”.
E, immaginando, si possono fare fantastiche connessioni. “Nel periodo postrivoluzionario Cvetaeva frequenta non solo amici poeti, pittori e scrittori, ma anche e soprattutto attori”. In una lettera del 1926 (anno della morte del poeta) a Rainer Maria Rilke scrive: “L’amore vive di parole e muore di azioni”. Piace immaginare che l’Angelo attore cui fa riferimento Rilke nella sua Quarta Elegia abbia giocato un ruolo nel guidare mano e pensiero di Marina I. Cvetaeva quando ha dato corpo vivo alle sue emozioni. Una sintonia con Rilke che si percepisce anche in ordine all’ amore infelice. Scrive infatti il poeta in questa medesima Elegia: “Anche gli Amanti che, nel mutuo darsi, / spazio si promettean fuga ed asilo, / urtano senza posa l’uno nell’altro / come in un duro limite di pietra”. Palcoscenici, attori e maschere: forse (e sia detto per inciso) la maschera che Marina I. Cvetaeva avrebbe maggiormente gradito è l’antica maschera greca Heutontimorumenos, “Tribolatrice di se stessa”, indossando la quale, sul palcoscenico della sua vita infelice, assume pieno vigore e senso il suo preciso definirsi: “ Io sono una voce e uno sguardo”.

Voce e sguardo che hanno descritto (“Io non penso, ascolto”) il transitare nelle più importanti stazioni della sua esistenza: Maternità, Amore, Politica, Morte (“Nessuno vede – nessuno sa – che già da un anno (quasi) cerco con gli occhi un gancio […] da un anno misuro – come un abito – la morte”) e Verità.

Le condizioni storico-sociopolitico-affettive che hanno caratterizzato l’essere nel mondo di Marina I. Cvetaeva sono compiutamente descritte nelle dieci pagine del capitolo dedicato alla biografia dell’ Autrice.
Di particolare interesse e rilevanza anche la nota con la quale Pina Napolitano riferisce del metodo seguito per la traduzione. A partire dallo sforzo fatto per garantire la massima aderenza al testo. Attenzione estrema anche al rispetto della punteggiatura: la “presenza pervasiva del trattino”, per esempio, racconta molto, con la propria forza metaforica, di quanto importanti siano per Marina I. Cvetaeva le formule di “raccordo”.

Ecco allora la natura di “strumento” che i Taccuini 1919 – 1921 rivestono. Gioverà così al processo di “immaginazione”, giustamente caldeggiato dalla Curatrice, procedere a una sorta di lettura parallela: da un lato le poesie e dall’altro i Taccuini, tenendo conto di date e periodi in cui le une e gli altri sono stati scritti.

In quegli anni, un tempo di certo non amico raccontato e descritto nei Taccuini:
“La mia giornata: mi alzo-la finestra in alto sta appena schiarendo-freddo-pozzanghere-polvere di segatura-secchi-brocche-stracci-dappertutto vestiti e camicie delle bambine. Sego. Accendo la stufa. Lavo le patate nell’acqua gelida e le lesso nel samovar…”
E Marina I. Cvetaeva chiarisce la sua strategia di sopravvivenza: “ Mi immergo appena nella giornata. Tiro fuori la testa: è già notte”. Una strategia che può essere messa in atto anche a partire da una certezza: “ So chi sono io: un’Anima Danzante”. Un’anima che, quando “è indifesa, cioè in tensione, subito vi fa irruzione tutta l’idiozia altrui-non solo odierna: eterna ! ”. Per arrivare poi alla destinazione finale e nonostante che “A vincere la vecchiaia – come ora la giovinezza – mi aiuterà l’Ironia”, una scritta indelebile campeggia a ricordo dell’essere stata – Marina I. Cvetaeva – crocefissa alla vita: “Non ride più. (Iscrizione sulla mia croce)”.Un utile e corposo apparato critico conclude il volume (32 pagine per 308 note). Marco Rossi 

 

Olga Berggol’c, Diario proibito. La verità nascosta sull’assedio di Leningrado. Marsilio, Venezia 2013, pagg. 159; € 14. Trad. e cura di Nadia Cicognini.

Dev’essere stato uno shock per il pubblico russo e sovietico — ma al tempo stesso anche la conferma di qualcosa di già sospettato — aver potuto leggere negli anni 1990-91 i Diari segreti 1939-1942, finalmente pubblicati in patria, di Olga Berggol’c (1910-1975), la poetessa testimone diretta e voce di speranza e di resistenza, attraverso la radio della città, nei novecento giorni dell’assedio di Leningrado (1941-1944). Con quell’opera, infatti, un’altra scrittrice russa di altezza siderale rivelava al mondo di non essere stata affatto il semplice megafono della propaganda di un regime anchilosato, tirannico e corrotto fin nel midollo, in gran parte causa diretta di quella immane tragedia, di quella “guerra contro i civili” e delle decine di milioni di morti causati fra la popolazione (come lei stessa scriveva nei Diari), ma all’opposto un’autentica intellettuale capace di fondere mirabilmente vita e scrittura, erede integrale della letteratura russa classica e dei suoi giganti, da sempre diffidenti e insofferenti nei confronti del potere politico. Oggi parte di quell’opera straordinaria e commovente sono accessibili anche al grande pubblico italiano, grazie alla maestria, alla competenza e alla bella, toccante introduzione di Nadia Cicognini. Questi Diari, interrati in un cortile di Leningrado per paura di ulteriori persecuzioni nei confronti di un’ancora “potenziale nemica del popolo” (Olga era stata arrestata nel 1938 e rimessa in libertà nel ’39, dopo aver subito umiliazioni, maltrattamenti e violenze), sono densi, da un lato, di tenere notazioni personali e dall’altro descrivono, rifiutando la retorica ufficiale, la cruda verità della vita quotidiana sotto le bombe tedesche, la spaventosa realtà della fame, del freddo e della morte, onnipresenti in una città spettrale e dimenticata, abitata ormai da persone indistinguibili fra gli ancora vivi o i già morti. Ma sono anche pagine — per quanto a tratti segnate da autocensura ancora dettata dalla paura — intrise di spietate accuse a un ottuso regime burocratico, popolato da mezze figure di mediocri opportunisti e lacchè, intriso di menzogna, in permanenza responsabile, nonostante la tragica situazione, di controlli, delazioni, di arbitri, di abusi illegali, di persecuzioni di oneste, innocenti e inermi persone comuni (incarcerate ingiustamente o esiliate come il padre, per il solo cognome), colpevole di tutti i rischi fatti prendere dalla popolazione senza una difesa efficace, nonché di inefficienze nell’approvvigionamento, nell’organizzazione militare e nella difesa degli abitanti, ma soprattutto di occultamento della verità sull’assedio al resto del Paese. La Berggol’c nei Diari si è tolta definitivamente le rosee lenti ideologiche indossate ancora (più per opportunismo che per convinzione), da letterati di mezza tacca che popolano l’Unione degli Scrittori, che copre di disprezzo e ai quali contrappone Anna Achmatova, la voce autentica, «L’orgoglio della poesia russa», che lei trova in un sottoscala, terrorizzata e morente, mentre allo Smolnyj in ben altre condizioni si proteggono i burocrati. Ormai Olga, a lungo censurata da leccapiedi, riesce a leggere la realtà della politica e della guerra nella loro cruda spietatezza, nel loro contrapporsi alla vita, della quale hanno sempre più sete i civili rimasti imprigionati in una città martoriata ed esangue. Questi Diari sono la straordinaria testimonianza di una donna divenuta capace di comprendere a fondo la realtà che la circonda, ben oltre la deformazione indotta dalla propaganda di regime. L’esperienza traumatica della prigione e delle persecuzioni staliniane l’hanno ormai condotta oltre “un Rubicone” che non sarà più attraversabile a ritroso. In carcere, infatti, come avrebbe potuto notare nella sua sconfinata saggezza Lev Tolstoj, aveva ormai «conosciuto il vero volto dello Stato», dal quale non si aspettava più nulla, se non un’aggiunta di sofferenze all’orrore imperante. I «Meschini rituali del potere e del Partito» non le appaiono ormai altro se non quella «Nebbia opprimente della menzogna e dell’ipocrisia onnipervasiva che domina le nostre vite e che chiamano ‘socialismo’». Con negli occhi il terribile volto della morte in agguato, la Berggol’c scrive parole spietate, intrise di indignazione, insofferenza e disgusto per un’accozzaglia politico-burocratica incapace e vessatoria, che con angherie, prepotenze e disprezzo per le persone, da decenni ha spianato la via a un destino di miseria, inutili sofferenze e paura. La sua tragica vita personale (la perdita di tre figli piccoli, la fucilazione del primo marito nelle purghe staliniane, la perdita del secondo nell’assedio e via elencando) si fonde integralmente con la terribile storia della Russia e proprio da questi Diari, come già nelle sue raccolte di versi, l’Autrice ne appare il volto più profondo, più puro. Olga emerge, da questa splendida opera, densa anche di grandi citazioni letterarie a memoria, non solo come una scomoda testimone della realtà dell’assedio, ma ormai, definitivamente, come l’emblema immortale della coscienza eroica del suo popolo. Il suo profondo amore per la Russia e per la sua gente — costretta a una prova indescrivibile – per quei civili e soldati che ormai la adorano perché scrive la verità, che la riconoscono e la incitano, che scambiano pane per avere i suoi versi, quelle persone delle quali ai capi e «a Stalin in realtà non importa nulla», si fa gradualmente sconfinato. La sua chiara bellezza, restituitaci da fotografie dell’epoca e la sua voce vivace, calda e rassicurante (rimasta in registrazioni magnetofoniche) alla radio, unico legame rimasto della città con il mondo, che commuove i leningradesi e i soldati, declamando versi suoi e di grandi letterati russi — infondendo speranza, coraggio e desiderio di sopravvivere alla catastrofe — sono inscindibili da questi Diari e completano il ritratto di una figura di straordinaria levatura morale, che ricorda per molti versi la Lara del Doktor Zhivago. Pasternàk, infatti, concepì quest’ultima proprio come il vero volto della Russia e delle sue storiche, terribili prove e come l’emblema della vita, del destino, nel loro infinito fluire, esattamente come li intende Olga Berggol’c in queste pagine. Leggere, studiare l’Assedio di Leningrado senza quest’opera è ormai impossibile. Non si tratta solo di pagine di letteratura vissuta in prima persona, tutt’uno con la vita di un testimone diretto. Si è qui alla presenza di un documento storico di eccezionale valore, che al contempo è grande letteratura, intrisa di senso di responsabilità nei confronti del proprio Paese e del proprio popolo, che raggiunge – come nel poema Il diario di febbraio, contenuto nelle ultime pagine — i vertici più alti della poesia. Alessandro Vitale

AvtobiografiЯ, Rivista di studi sulla scrittura e sulla rappresentazione del sé nella cultura russa- http://journals.padovauniversitypress.it/avtobiografija

Nel 2012 è uscito il primo numero di AvtobiografiЯ, una rivista online, con cadenza annuale, dedicata ai generi dell’ autobiografia, della biografia, della fiction narrativa, del diario, delle memorie e dell’epistola nella letteratura e nell’arte russa. L’obiettivo è quello di esaminare in modo sistematico le tematiche relative alle diverse modalità di rappresentazione del sé, che sebbene presenti nella tradizione russa, sono state studiate in modo poco organico. Come spiega nell’introduzione Claudia Criveller, ricercatrice dell’Università di Padova, a cui si deve questa lodevole iniziativa, la rivista integra e supporta il portale http//www-disll.unipd.it/rifrazionedelse, destinato a fornire informazioni sulle novità bibliografiche e su iniziative scientifiche, nonché bibliografie di opere e di studi critici di ambito russo costantemente aggiornate. Nel primo numero sono ospitati gli Atti della giornata di studi “La rifrazione del sé. I generi auto-biografici e memorialistici nella cultura russa del XIX e XX secolo”, organizzata all’Università di Padova (18 aprile 2012), il numero è completato da due sezioni,dedicate a recensioni e a brevi segnalazioni. I contributi di studiosi di provenienze diverse sono in italiano, in russo, in inglese e in francese e sono preceduti da un breve abstract in inglese. Il primo articolo Gli studi sui generi auto-biografici e memorialistici in Russia di C. Crivellerè un’attenta e sintetica rassegna degli studi russi e sovietici in questi ambiti, corredata da una significativa bibliografia. Segue l’articolo di P. Deotto, in cui viene delineata la definizione di autobiografia su commissione; E. Grečanaja in Francuzskij jazik kak sredstvosamoizobraženija: neizdannyjputevojdnevnik Anastasii Semenovny Chljustinoj (v zamužestve Sirkur) analizza i modelli letterari che influiscono sulla scrittura femminile dei diari di viaggio nella seconda metà del Settecento. Andrea Gullotta, che insieme a C. Criveller è l’editor della rivista, analizza i tratti peculiari delle memorie del Gulag nel contesto della letteratura sovietica. A. Kolikov si sofferma sulla nota autobiografica di D.S. Merežkovskij per individuare i meccanismi utilizzati dallo scrittore nel creare la propria immagine culturale, mentre Francesca Lazzarin delinea un’analisi approfondita delle Peterburgskie Zimy le controverse memorie (o pseudomemorie) di Georgij Ivanov. Natalija Rodigina e Tat’jana Saburova indagano i meccanismi di autoidentificazione utilizzati da Elizaveta Vodovozova e Ariadna Tyrkova-Vil’jams, esponenti di due generazioni significative della società russa dell’Ottocento (le generazioni degli anni sessanta e ottanta) nelle memorie. Saburova delinea l’autobiografia collettiva della generazione degli anni Ottanta dell’Ottocento, attraverso le memorie e le lettere di A.V. Amfiteatrov. In Memuarnyj ocerk Mariny Cvetaevo j Živoe o živom (1932) v kontekste mifotvorčeskich tendencij rossijskogo modernizma 1910x-30x godov Aleksandra Smit analizza la costruzione della figura di Maksimilian Vološin nelle memorie di Cvetaeva. Infine Raffaella Vassena interpreta i ricordi di infanzia nel Diario dello scrittore di Dostoevskij come momenti di interazione tra memoria individuale e memoria collettiva. Il secondo numero della rivista è stato pensato per indirizzare lo studio delle forme auto-biografiche verso concetti culturali molto importanti nella cultura russa: lo Spazio e la Memoria, temi ai quali è stata dedicata una conferenza internazionale, organizzata dal 7 al 9 maggio 2013 presso l’Università degli Studi di Padova. L’intesecarsi della scrittura del sé con la memoria e lo spazio, nel contesto della Russia, ha stimolato la ricerca degli studiosi che hanno contribuito con un numero cospicuo di articoli: una parte dei contributi è stata pubblicata in questo numero e una seconda parte uscirà nel terzo numero programmato per il 2014. L’introduzione di Claudia Criveller e Andrea Gullotta presenta una sintetica panoramica degli articoli pubblicati, che spaziano dalla Vita del protopop Avvakum al saggio autobiografico di Brodskij In a Room and a Half, permettendo al lettore di orientarsi facilmente tra le diverse tematiche affrontate.

 

Patrizia Deotto